Chapter 10: Il principe di mamma

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[🎧 Voilà di Barbara Pravi]

"Regardez moi, avant que je me déteste"

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Chapter 10: Il principe di mamma

Theo

Mi piacerebbe poter incarnare l'immagine che molti ritengono adatta a me: quella di un onesto "figlio di papà".

Uno di quei figli che, durante l'infanzia, si recava alle partite di calcio in compagnia del proprio padre e, al ritorno a casa il sedici giugno, aveva tra le mani una letterina ricca di dediche e dolci parole del tipo "da grande spero di essere come te, papà".

Tuttavia, mi duole constatare che la realtà della mia esperienza è stata ben diversa. Non ho mai potuto godere di una simile connessione con mio padre, poiché nutrivo nei suoi confronti un profondo sentimento di avversione. Ambivo a qualsiasi cosa purché assomigliargli e la sua sola presenza suscitava in me timore e al contempo un fastidioso malessere allo stomaco. La sua voce, un'orchestra di pretese, suonava nei miei timpani come il lamento di una tromba di guerra. Odiavo il modo in cui si sedeva a tavola, con la schiena dritta e i gomiti impeccabilmente posizionati verso il basso, un'imitazione umana di un manichino sofisticato. La sua risata, forzata e priva di genuinità, risuonava nei miei timpani come il gracchiare di un corvo costretto a imparare il suono dell'allegria, così come le sue parole studiate e artificiose quando conversava con gli altri, fogli di carta velina avvolte attorno a una sincerità mai esistita.

Ogni gesto, dalla cura meticolosa con cui annodava la cravatta al persistente profumo Blue de Chanel che emanava la lozione del suo dopobarba, contribuiva a rafforzare il mio odio. Erano dettagli che, accumulati, formavano un mosaico di fastidiosi ritocchi che mi facevano desiderare di fuggire quanto più possibile da quell'immagine paterna e dalla gabbia chiusa a chiave con il suo sangue. Perché, per quanto io lo odiassi, ascoltavo ogni sua parola e ogni suo comando.

Più che un figlio di papà, sono stato il principe di mamma.

Mia madre era libera, anche dentro una gabbia, lei sapeva volare. E io la guardavo e, nella mia innocenza, cercavo di proteggerla, perché era l'unico essere dentro quella casa a cui non erano state tarpate le ali.

Un pomeriggio, vicino al giorno di Natale, mi disse una frase che solo adesso, da adulto, sono riuscito a comprendere appieno. Due mattine prima, avevo provato a curare un passerotto che avevo trovato in giardino. Con un'ala rotta, incapace di volare, ma ancora pulsante di vita, lo contemplavo mentre si dimenava emettendo deboli cinguettii. Il mio cuore empatico mi spinse ad aiutarlo. Gli fornii acqua, qualche briciola, e costruii per lui un rifugio caldo, un tentativo di ricreare un luogo che somigliasse al suo nido. Abbiate pietà delle mie tecniche inesperte; ero ancora un bambino ingenuo, convinto che con un po' di amore e qualche attenzione tutto sarebbe potuto tornare come prima. Il giorno seguente, varcai il cancello del giardino con il cuore pervaso da speranza, ma il piccolo passerotto non diede più segni di vita. Lo toccai, cercando di muoverlo, ma nulla, nessuna reazione, solo il rumore dei miei singhiozzi. Credo che quel momento abbia rappresentato il mio primo assaggio del dolore provocato da una perdita.

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