Dall’inizio della pandemia di Covid-19 (cioè dal marzo 2020) i salari sono scesi, mentre il lavoro è aumentato. E sono cresciuti anche ritmi, stress, fatica. La questione salariale – che è stata al centro delle mobilitazioni unitarie di maggio organizzate da Cgil, Cisl e Uil – emerge con forza dall’Inchiesta nazionale sulle condizioni e le aspettative delle lavoratrici e lavoratori promossa dalla Cgil nazionale, coordinata dalla Fondazione Di Vittorio e condotta in collaborazione con le strutture della Confederazione. L’indagine – di cui pubblichiamo i primi risultati mentre è i corso un’analisi più approfondita – ha raggiunto 31 mila lavoratrici e lavoratori di tutti i settori pubblici e privati, tutte le dimensioni di impresa, tutte le tipologie contrattuali e anche a chi era senza contratto o disoccupato.

Proprio a conferma della rilevanza del tema salariale – resa ancora maggiore oggi dai riflessi della guerra in Ucraina sul costo della vita – una grossa fetta del campione chiede al sindacato di impegnarsi sempre di più per invertire un trend retributivo che ci vede agli ultimi posti in Europa. Ma andiamo con ordine.

La questione salariale

Se redditi e tempi di lavoro sono rimasti stabili per circa due terzi del campione, è rilevante il fatto che il reddito da lavoro è diminuito per il 22,3% dei rispondenti, a fronte di una diminuzione del tempo di lavoro che interessa però una quota inferiore, cioè il 10,4%. 

Interessanti anche i dati riferiti al genere. Il 53,8% delle donne è concentrato nelle classi fino a 20 mila euro netti annui contro il 30,7% degli uomini. Un gender pay gap che, come è ormai tristemente noto, è anche conseguenza della maggiore diffusione del lavoro a termine e in part-time ma comunque, scrivono i ricercatori, “le differenze salariali permangono anche nei regimi di lavoro a tempo indeterminato in full-time”.

Il sindacato è importante

Di grande rilievo il fatto che si registra una relazione tra i livelli più elevati di retribuzione e i contesti nei quali è presente un accordo aziendale/di secondo livello: tra chi ha un reddito da lavoro che supera i 35.000 euro netti annuali, infatti, oltre il 70% dichiara la presenza di un accordo aziendale/di secondo livello mentre tra chi ha fino a 15.000 euro, questa quota non supera il 23%. 

Tuttavia, a dimostrazione che su questo terreno occorre impegnarsi sempre di più sta il fatto che, si legge nel report, “le questioni economiche e occupazionali emergono come le priorità per l’azione sindacale”. Al primo posto, e con grande scarto sugli altri, si colloca infatti il tema dell’aumento dei salari (68%), seguito dalla difesa e aumento dell’occupazione (44,7%) e dal contrasto alla precarietà (42,7%).

Come si lavora

Significativo il fatto che non solo è aumentato il tempo di lavoro generalmente senza adeguati riconoscimenti salariali, ma che è anche peggiorato il modo in cui si lavora. Le risposte degli intervistati non lasciano dubbi. Il primo dato inquietante è che Il 14,4% affronta spesso orari straordinari non retribuiti e non compensati con i riposi. Un problema che si presenta, aspetto molto interessante rispetto a tanti luoghi comuni, in misura trasversale sia nelle professioni a bassa qualifica (ad esempio in agricoltura) che in quelli ad alta qualifica come l’informatica.

Non solo: “Si rileva un’alta intensità del lavoro in termini di scadenze, ritmi e carichi, che si presenta in maniera elevata (‘spesso’) per più di un rispondente su tre”. Inoltre, “i risultati evidenziano la presenza di livelli di sotto-inquadramento diffusi, con un rispondente su quattro che ‘spesso’ deve assumere responsabilità eccessive rispetto alle mansioni”.

E la salute?

Tutto ciò non può ovviamente non avere un riflesso sulla salute e sicurezza sul lavoro. Il 16,7% degli intervistati dichiara di dover sollevare “spesso” dei carichi pesanti e il 7,9% lavora “spesso” in condizioni di pericolo (un’esposizione che sale al 17% per gli operai e tecnici, al 19,5% per i servizi socio-sanitari, al 27% nella pubblica sicurezza). Lo stress è maggiore nel lavoro impiegatizio (59,9%), nella vendita al pubblico (65,3%) e soprattutto nei servizi socio-sanitari e di cura (68,7%) ma interessa anche quasi la metà del lavoro operaio e tecnico (48,7%). Resta il fatto che un quarto dei rispondenti giudica la prevenzione dei rischi per la salute e sicurezza nella propria azienda come insufficiente e questa incidenza – dato assai rilevante – è maggiore nelle imprese meno innovative.

Insomma: materiale e analisi utili per un’azione sindacale all’altezza delle sfide di una contemporaneità più complessa. Chi fosse interessato a ulteriori approfondimenti, li potrà trovare in una sezione dedicata di Collettiva, che contiene, oltre alla sintesi della ricerca, le schede prodotte con le categorie sindacali che approfondiscono le dinamiche per ciascun settore.