Un ripensamento c’è stato. Non sulla chiusura della fabbrica, quella purtroppo è confermata: lo stabilimento tessile Nara Camicie di Santa Maria di Sala (Venezia) sarà dismesso. Ma i 20 addetti (12 donne, otto uomini) non verranno licenziati in tronco, bensì verrà chiesta la cassa integrazione straordinaria per cessata attività. Una boccata d’ossigeno per lavoratrici e lavoratori, tempo guadagnato per immaginare e costruire un futuro possibile.

La novità è arrivata giovedì 22 al tavolo di crisi convocato dalla Regione Veneto, cui hanno partecipato Filctem e Filcams Cgil, Femca e Fisascat Cisl, Uiltec e Uiltucs Uil. A gennaio la società del gruppo Fenicia aveva annunciato la chiusura, ipotizzando il passaggio di tutti i dipendenti nel proprio impianto di Milano (in una sede a 250 chilometri da quella attuale). Una proposta rispedita dai sindacati al mittente, che invece avevano chiesto l’applicazione degli ammortizzatori sociali.

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Inizialmente l’azienda si era rifiutata di prendere in considerazione l’ipotesi, fino al ripensamento dello scorso fine settimana. I sindacati sollecitano anche un mix di misure per affrontare la difficile situazione. “L'azienda – commentano Filctem e Filcams territoriali – ha preventivato un costo di gestione della crisi. La nostra proposta è di utilizzare una parte di queste risorse per incentivare i lavoratori disponibili a uscire prima della scadenza della cassa integrazione”.

Il marchio Nara Camicie (oggi Nara Milano), leader nella produzione e distribuzione di camiceria femminile, era di proprietà della società Passaggio Obbligato, facente capo fin dal 1984 all’imprenditore milanese Walter Annaratone. Nel giugno 2021 venne acquisita da Fenicia, società del noto brand Camicissima (fondato nel 2004 dai fratelli Sergio e Fabio Candido). Ma la strategia di mercato ipotizzata, incentrata su una linea lifestyle e contemporanea, tesa a conquistare anche una clientela più giovane, non sembra aver dato i risultati sperati. Da qui, la decisione della chiusura.

“Da anni chiedevamo alla società di illustrarci il loro piano industriale, in quanto non ci fornivano certezze. Ci sembrava che le operazioni che stavano portando avanti fossero legate più all'interesse del marchio e della parte commerciale che del sito produttivo”, concludono i sindacati: “L’azienda ci spiegava che avrebbero cercato di rilevare dei punti vendita nel territorio, che la loro volontà era quella di mantenere lo stabilimento. A distanza di pochi anni, però, i loro progetti non si sono mai concretizzati, fino ad arrivare alla drammatica comunicazione di chiusura”.